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MR. KLEIN
(MONSIEUR KLEIN)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 14 aprile 1977
 
di Joseph Losey, con Alain Delon, Jeanne Moreau, Suzanne Flon, Michael Lonsdale, Massimo Girotti (Francia, 1976)
 
Ci sono dei registi ai risulta impossibile sfuggire dalla realtà delle immagini mostrate; altri per i quali la fuga verso dei significati secondi è la ragione stessa del loro cinema. Joseph Losey è tra questi: nei suoi momenti migliori (IL SERVO, ACCIDENT) tutto il suo sforzo registico è teso a proiettare il significato morale delle immagini verso una dimensione superiore, universale, eterna.

Cos'è MONSIEUR KLEIN ? In primo luogo gli anni della guerra, dei nazisti a Parigi, della deportazione degli ebrei. Losey non si perde in molti dettagli: qualche eco di blindati che passano per le strade, qualche militare in uniforme che assiste ad uno spettacolo di travestiti, la tristemente celebre retata del Vélodrome d'Hiver, ricostruita abilmente ma senza soverchia preoccupazione realistica. Soprattutto, l'agghiacciante sequenza che apre il film, e che ne detta il tono: l'esame brutale, al limite della sopportazione, del medico alla donna ebrea.

MONSIEUR KLEIN è in secondo luogo una vicenda tra il kafkiano ed il poliziesco. Un usuraio (ed è la seconda sequenza del film che ce lo descrive, stupenda: la ragazza che si stira sul letto, la camera che si attarda sugli oggetti dell'ambiente ed in sottofondo, appena percettibile, il discorso di Delon che riceve un ebreo costretto a vendere un quadro di autore) è preso di mira da un omonimo misterioso. Questi cerca di addossare a Delon il marchio di semita. E si può comprendere, come dice Delon al poliziotto, la sua preoccupazione dapprima, il suo terrore in seguito.

Ma Mr. Klein è infine e soprattutto, un viaggio astratto e simbolico: quello di un uomo che si trova improvvisamente di fronte ad un altro sè stesso, alla propria coscienza. E' il racconto di una vertigine, di una perdizione inarrestabile di un individuo alla ricerca della propria identità. Del fascino magico e terribile di questo viaggio, che attira il protagonista fino alla morte, speditamente raffigurata nella sequenza finale, quando la marea umana dei deportati si fa inghiottire dal buco nero che porta ai vagoni blindati.

Il film non è la storia di una presa di coscienza morale, o civile, o politica: Delon alla fine è altrettanto duro nei confronti del prossimo che all'inizio. Risponde malamente alla donna sull'autobus dei deportati; e l'unica cosa per la quale mostri dell'affetto e il cane.

Non è nemmeno l'assunzione dell'identità ebraica, della scelta di un destino comune come autopunizione: Delon segue i deportati (mentre potrebbe benissimo farsi salvare dall'avvocato, che gli porge gli attestati di nascita) solo perché ha visto che l'altro Mr. Klein è partito prima di lui, perché ne è affascinato e turbato fino all'oblio. E ovviamente, non è per ragioni politiche che Delon segue l'altro Klein, quello che faceva parte della Resistenza. No, quello che interessa a Losey è proprio il fascino di un doppio-gioco, costantemente in bilico tra realtà (e che tremenda realtà) e astrazione. E cosi il protagonista: attratto non tanto dal rimorso, quanto dal mistero, o piuttosto dalla fascinazione, provocata dalla comparsa di questo doppio di sè stesso.

Pure con qualche scompenso (la sequenza con Jeanne Moreau, ad esempio, sembra un po' fine a sè stessa), con qualche raggiro che fa mordere la coda alla vicenda, la regia di Losey (e la sceneggiatura di Franco Solinas sulla quale è basata) sono stupende.

Tutta la durata del film e bagnata da una luce verdognola, sepolcrare, che marca perfettamente la degenerazione verso la quale marciano i tempi: girata quasi totalmente in interni o di notte, la luce del sole, il vigore dell'aria fresca non viene mai a ravvivare questa corsa verso gli inferni. Con un gioco di specchi (una vecchia specialità di Losey), di ribaltamenti nel taglio delle immagini e del montaggio, il regista riesce a sdoppiare incredibilmente il personaggio, a farci percepire visivamente e moralmente, l'angoscia dell'individuo posto dinnanzi ad an'altra immagine di èe stesso.

Film meditato fino all'eccesso, non sempre brillante e commerciale come forse il produttore Delon si aspettava, MONSIER KLEIN è una delle opere più affascinanti della lunga carriera di Losey. E' la prova, magica, di come l'arte più ferocemente realistica, possa evadere magistralmente dalla propria realtà materiale.


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